Torniamo sul nuovo Piano degli Interventi di Padova intervistando Franco Zecchinato, dopo aver introdotto il tema del rischio di un nuovo sacco edilizio della città e aver intervistato l’assessore all’urbanistica Andrea Ragona.
Membro del consiglio di amministrazione del Mercato AgroAlimentare di Padova (MAAP), Franco Zecchinato lavora nell’azienda agricola di famiglia Il Biancospino a Salboro. Nel 1984 è stato tra i fondatori e attualmente è il presidente della cooperativa El Tamiso cui partecipano produttori, tecnici agricoli, agricoltori specializzati nella distribuzione biologica.
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Come leggi l’atteggiamento dell’amministrazione cittadina riguardo al consumo di suolo a Padova?
Ho letto l’articolo pubblicato da Lies in proposito e l’ho condiviso e fatto circolare. Non è una bella storia. Da cittadino e da professionista che si muove a Padova vedo segnali preoccupanti. Pur comprendendo le buone ragioni di convivenza nell’amministrazione, mi aspettavo ben altre reazioni all’articolo, soprattutto da parte di Coalizione Civica, che ha nel programma elettorale e nell’accordo con il sindaco Sergio Giordani l’obiettivo di azzerare il consumo di suolo. Purtroppo dobbiamo registrare che il consumo di suolo non si ferma e non si fermerà. C’è una responsabilità chiara di Arturo Lorenzoni a questo proposito, forse fatta per poter avere merce di scambio rispetto a cubature da spostare da una parte all’altra di Padova, magari per favorire scelte più logiche quanto a destinazioni d’uso. Ma se siamo già a un tale livello di consumo di suolo io penso che l’unica scelta possibile sia: “zero consumo di suolo”. Non parlo delle piccole e comprensibili esigenze legittime delle famiglie, ma è necessario contrastare la speculazione.
Chiamo in causa anche i tagli degli alberi lungo i canali di questi giorni, in particolare sulle sommità arginali, che non hanno alcun senso: dragate i canali invece di distruggere e speculare sulle manutenzioni. Anche in base al Piano Casa si continuano a tagliare alberi, per fare spazio alla “cubatura”. L’amministrazione locale ha dato sinora timidi segnali, insufficienti e privi di visione complessiva.
Come definiresti il contesto storico e culturale locale?
Padova è un comune piccolo rispetto ad altri che, come Verona, in epoca fascista decisero di ingrandirsi a spese dei comuni limitrofi. Il nostro è un agglomerato disordinato che non so più quante zone industriali e/o artigianali abbia. Mi permetto una battuta apparentemente romantica: quel che manca rispetto alle modifiche che si vogliono apportare al territorio è l’attenzione per l’identità. Io sono nato in un luogo che oggi è stato reso irriconoscibile. E così accade ai miei figli e alle mie nipoti. Il paesaggio è quel che forma la nostra identità, ma questo paesaggio viene trasformato continuamente, come se l’unica logica cui rispondere fosse il bisogno di far lavorare le imprese e di modificare il contesto.
Qual è la tua opinione sull’attuale Documento del Sindaco?
Il documento non sembra in grado di andare verso una riduzione del consumo di suolo. Faccio solo un esempio: purtroppo fa ancora parte del piano la bretella est di Albignasego: è una scelta “conformativa”, ci si conforma a quel che resta da fare e io lo trovo poco coraggioso. Invece sul piano urbanistico ci vuole più coraggio. Tenendo conto anche del progetto per il nuovo ospedale, calato dall’alto e che si tradurrà in un’urbanizzazione pesante (e non conteggiata).
In che modo sarà possibile contrastare il consumo di suolo negli anni a venire?
Penso serva una discussione politica meno legata all’emozione del voto e più orientata a definire dove si voglia andare. Ci sono enormi volumi che si stanno liberando, anche in relazione alle caserme e all’aeroporto. È evidente che il primo appetito riguarda la realizzazione di nuove cubature. Credo, invece, che vadano promosse misure di manutenzione dei quartieri attente alla qualità della vita. Certo, c’è bisogno di case, di affitti accessibili, ma non si risponde costruendo case nuove; piuttosto affrontando la proprietà fondiaria che, nei fatti, non le mette a disposizione.
Cosa si può fare?
Per esempio, vanno presi in considerazione gli incentivi. Col bonus 110% si è fatto bene a incentivare la valorizzazione delle abitazioni e degli spazi che possono essere portati a un adeguato utilizzo evitando di costruire nuovi edifici. Ci sono spazi di elaborazione per nuove politiche e anche per riportare persone in città, ma non in direzione di buttare giù il vecchio e continuare a costruire.
Qual era la logica (demenziale) dei sindaci passati? Avere più abitanti; siccome i comuni contermini costruiscono e me li portano via, allora devo costruire anch’io. A maggior ragione bisognerebbe agire in modo concertato col territorio circostante, ma dell’idea della “Grande Padova” sembra rimasto solo il “Grande Raccordo Anulare”… e qualche recente e interessante proposito sulla mobilità sostenibile.
Io sono nel Consiglio d’Amministrazione del Mercato AgroAlimentare di Padova (MAAP): consultati nel lavoro di ascolto fatto da Coalizione Civica, ci siamo espressi negativamente rispetto all’ipotesi di dismissione della ZIP, a differenza di altri attori come la Camera di Commercio e la Provincia di Padova, che l’hanno deciso. Si tratta di un’area che già contava circa il 15% di spazi vuoti e quindi che avrebbe potuto permettere progetti di incubazione e sperimentazione. Ha fatto scalpore il libro “Sessant’anni fa… Solo una scommessa. La zona industriale di Padova: da ruralità a industrializzazione” di Mario Squizzato e Paolo Ravazzolo sulla ZIP, la più vasta area industriale del Nordest a gestione unitaria (10,5 milioni di mq, qui potete leggere l’inchiesta di Lies sulla ZIP, la sua storia e le lotte che ne hanno accompagnato origine e sviluppo, ndr). Dopo averla espropriata ai contadini, urbanizzata, venduta e rivenduta, averla liquidata non va nella direzione giusta. Forse si è cercato di salvare l’Interporto, grande impresa pubblico/privata (certamente con un forte indebitamento) ipotizzandone il raddoppio: ma ci sono le condizioni per farlo? E in quale relazione con l’idrovia? Qual è la logica che suggerisce di raddoppiarlo? In che modo ne risentiranno i cittadini padovani che già vivono in un territorio fortemente antropizzato e inquinato?
Dagli anni Novanta il mercato di Padova è divenuto sempre più importante in quanto riferimento per l’allora “nuova” Europa Orientale, ma dal 2008 assistiamo a una riduzione costante dei volumi. Oggi siamo a 2,7 milioni di quintali all’anno, contro i 3,6 del 2008. Il mercato dovrebbe parlare di più con la città, non rivolgersi solo all’estero. Negli ultimi anni le importazioni di ortofrutticoli sono continuamente aumentate, a scapito delle produzioni nazionali. Il 40% della lattuga, l’80% dei limoni, per fare solo due esempi, vengono dall’estero: non se ne parla e invece andrebbe fatta una riflessione condivisa.
Cosa fare? Cerchiamo di far sì che i nostri figli trovino interessante vivere qui. In tanti luoghi in Europa sono stati trasformati edifici e capannoni con processi laboratoriali vitali. Perché questo non avviene o addirittura si fanno errori clamorosi come è avvenuto all’Ex Macello di Via Cornaro, uno sgombero che grida vendetta e che risponde alla logica per cui una parte dell’amministrazione “lottizza” e considera suo quel bene?
In questo contesto, che ruolo ha il piano agro-paesaggistico?
Il 20 aprile si riunirà il comitato che il Settore verde ha nominato per sovraintendere alla sua realizzazione. Io vi sono stato nominato, e ho fatto presente recentemente che questo parco non coincide solo con l’area del Basso Isonzo. Pensiamo solo a Salboro: conta circa 600 bovini, un numero molto alto rispetto alle aree a disposizione. Ci sono ancora numerose aziende agricole vitali, dove ci si mette in gioco in prima persona, non affidando le attività a terzi. In gran parte si tratta di metodi convenzionali, ma favorendo il rapporto con la città è certo che vi sarebbe una conversione a un approccio più sostenibile.
Ad Altichiero, Mandria, Basso Isonzo, pur formalmente aree “rurali”, sono rare le imprese agricole diretto coltivatrici; prevalgono i terreni affidati alle cure di terzi. Ma è chi gestisce in prima persona l’azienda che può rilanciare e ristabilire una relazione con la città e andare in direzione di un mercato locale. Così io traduco la lezione che hanno impartito a Padova Sergio Lironi e Viviana Ferrario. Se vogliamo far dialogare l’agricoltura con la città il primo passaggio è il vincolo. Dobbiamo fissare alcuni paletti e definire che la superficie agricola rimanga tale, o dobbiamo considerarla al netto degli ulteriori 262 ha previsti? Se pensiamo che la terra sia sempre e comunque una variabile non se ne esce. Con i volumi previsti attualmente è certo che le aree del parco verranno invase.
Una delle domande da porsi, invece, è: quale potrebbe essere il tasso di occupazione in ambito agricolo declinata in produttività e in relazione con la città? Se producessimo cibo daremmo lavoro a centinaia di persone. Questo richiede, però, di andare in direzione del biologico: non penso tanto alle norme europee, ma soprattutto alla fertilità dei suoli, alla presenza delle alberature, a un paesaggio gradevole, alla regolarità dell’occupazione, alla stagionalità e qualità dei cibi. Oggi, invece, la maggior parte degli agricoltori sono impegnati con vacche da latte sfruttate all’osso, preda di una logica mercantile e di ritmi parossistici. Va ritrovato il ruolo sociale e la dignità che l’agricoltore ha sempre avuto e che da molto tempo si va perdendo. Va ricostituito, nell’interesse di un territorio vivo, della cura dell’ambiente, così come delle relazioni sociali.
Intervista a cura della redazione di Lies.
Foto: Franco Zecchinato, da www.eltamiso.it