Di sfruttamento lavorativo si può discutere in Veneto? Il dubbio sorge a fronte delle dichiarazioni di politici e imprenditori che hanno intimato di non mettere sotto accusa l’intero sistema a fronte della denuncia di agghiaccianti casi di sfruttamento lavorativo che avrebbero avuto luogo all’interno dei magazzini della tipografia Grafica Veneta.
L’invito perentorio di questi ultimi – efficace si direbbe, visto che il dibattito sembra morto sul nascere – è sostanzialmente basato su due assunti: a) non si deve generalizzare; b) occorre attendere le sentenze prima di emettere giudizi.
È forse il caso di chiarire.
a) La tanto deprecata generalizzazione è, in definitiva, un dispositivo di conoscenza per cui si comparano fatti diversi interrogandosi se possano, o meno, rappresentare una linea di tendenza. In tribunale, dove la responsabilità penale sta alle singole persone, non si generalizza, tranne nei casi di reati associativi. Ma nel dibattito pubblico sì: si può e si deve generalizzare. Tanto più che i diversi fatti emergono alla luce, in questa Regione, non solo grazie al lavoro della magistratura, e quindi seguendo la codificazione delle leggi, ma spesso anche grazie alla coraggiosa denuncia di lavoratori e sindacati o al lavoro di ricerca di molti studiosi (tra gli altri Devi Sacchetto e Donata Gottardi). Chi teme che il ragionare su questi fatti porti ad assunti quali “tutti gli imprenditori sono degli schiavisti” sembra guidato, più che dalla razionalità, da tendenze paranoiche e da sindromi persecutorie. È importante ricordare quanto scriveva Stefano Micelli – non certo un estremista – pochi anni orsono: «Assuefatta all’idea che il nord est sia sempre migliore di quanto raccontato dai media, l’opinione pubblica non ha saputo reclamare spiegazioni all’altezza dei fatti. […] Senza consapevolezza e senza capacità critica il nord est è destinato al declino e con esso pure una parte rilevante dei valori che ha saputo promuovere nel corso degli ultimi trent’anni» (Fonte: Rapporto Nord Est 2016).
b) Davvero “prima della sentenza nulla si può dire e nessun giudizio si può esprimere”? Questa posizione parte dall’assunto che la formazione di un giudizio di carattere sociale e politico debba seguire le stesse modalità del giudizio penale, anzi che debba sostanzialmente conformarsi ad esso. Solo quando i caratteri della vicenda verranno validati da una sentenza di tribunale, sarà possibile, secondo questa visione, esprimere dei giudizi. Assumendo questa logica, il dibattito pubblico su moltissime vicende di interesse generale dovrebbe ammutolirsi. Sappiamo invece come la logica e gli obiettivi del procedimento giudiziario sono diversi da quelli delle scienze sociali (rimandiamo per le trattazioni adeguate del tema a Calamandrei, 1939 e Ginzburg, 1991), così come di ordine del tutto diverso sono le verità indagate nelle due sedi. L’incedere del dibattito pubblico non ha l’obiettivo di comminare delle pene, non si pretende di stabilire se la condotta di Tizio o Caio è sussumibile al tal articolo di legge. Si tratta di consolidare delle opinioni attraverso il confronto, non di emettere sentenze.
Invitiamo ad allargare lo sguardo e depenalizzare il cervello per comprendere quanto stia accadendo attorno a noi.
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