Fra aprile e luglio 2023, con la bella stagione, sono riprese le attività all’ex macello di via Cornaro a Padova: da dicembre del 2021 quell’area è stata dichiarata dalla comunità di riferimento “bene comune ad uso civico e collettivo”, senza però ottenere una risposta in merito dal Comune di Padova, nonostante esista un regolamento comunale in proposito (qui l’appello).
La comunità ha provveduto a ripulire l’enorme massa di rifiuti accumulata nell’area verde esterna restituendola alla funzione di orto pubblico ed ha organizzato incontri conviviali e culturali. Protagonista il 23 giugno è stato Adriano Menin che, per l’occasione, ha condiviso con i partecipanti questi testi.
La Clac, il comune, la questura e l’opinione pubblica: ovvero i “Promessi sposi della Padova del 2020”
Piccola nota satirica su un fattaccio di tre anni e mezzo fa. Ogni riferimento a fatti e persone è puramente metaforico e democraticamente voluto.
Di Adriano Menin, testimone.
“Questa Comunità non s’ha da fare!” Pare che questa voce sia stata proferita il 15 gennaio 2020 davanti all’ex macello di Padova da qualcuno in alto loco incaricato di sguinzagliare una nutrita e agguerrita squadra di involontari “bravi” armati di manganello e casco. Promotore dello sguinzaglio per cancellare un fastidioso assembramento di cittadini organizzati in una poliedrica associazione di associazioni, da sempre fuori dagli schemi (la CLAC, la Comunità per le Libere Attività Culturali, uno strano connubio di giovani e vecchi, di conoscenze variegate e di umanità, di socialità e politica – polis nella res publica – di attività di ritrovo e scambio di idee, di cultura, passione e pensiero) pare sia stato un signorotto locale (lo chiamano “Don Rodrigo”) ben introdotto nei piani alti degli Uffici del Palazzo Comunale, sede del Governatore (forse spagnolo, non si capisce da dove venga).
Il Governatore, è noto, non capisce certe “non conformità” del popolo rispetto alla sua concezione della città e del suo sviluppo futuro, fatto di supermercati megagalattici, ospedali d’eccellenza per bambini in mezzo al traffico, di progetti di espansione edilizia senza se e senza ma. Egli detesta come la peste le situazioni di pericolo per l’incolumità pubblica: ma non tutte, solo quelle che sussistono da decenni in edifici storici come l’ex macello di via Cornaro, abbandonato da 45 anni e tacitamente lasciato alle magre cure di semplici volonterosi. Per essi i suoi predecessori (con varie sfumature) hanno sempre chiuso gli occhi in attesa di un salutare, definitivo evento liberatorio, poi arrivato di sorpresa quella mattina di gennaio: lo sgombero di tutti gli intrusi (banali e vili “cittadini”, regolarmente inscritti negli elenchi elettorali, dell’Agenzia delle Entrate e dell’Anagrafe Tributaria) che vi si fossero insediati con pericolose idee sulla gestione dell’area, tipo “dal basso”, “socializzante”, “libera” e non invece rigorosamente conformi al mercato e alle sue “sacrosante”, indispensabili finalità di lucro.
Pare che, a distanza di tre anni e mezzo dall’incursione militare e dopo il successivo arrivo della peste virale, solo pochi supersiti siano sopravvissuti per raccontare la tragedia, rialzando la schiena e chiedendo giustizia e futuro per un Bene Comune scippato a tutti di cui pochi, a Padova, conoscono veramente la storia.
Oggi qualcuno di loro è qui presente con noi… a nome loro vi do il benvenuto!
Quando la memoria di un luogo diventa identità
Padova, Ex Macello, 23 giugno 2023: i perché di un incontro. Di Adriano Menin.
Non vi è dubbio che se ricercassimo con attenzione le caratteristiche storiche, monumentali e umane di ogni singolo angolo della nostra millenaria Città, potremmo trarre mille spunti per sentirci pienamente e consapevolmente stupiti e orgogliosi di appartenere ad essa, di essere parte della sua esistenza nel tempo, lontana e attuale, di poter assaporare la sua grandezza e la sua bellezza nei secoli rinnovata.
Padova è indubbiamente un Bene dell’Umanità, come lo è qualsiasi luogo della Terra dove l’Uomo abbia lasciato il meglio, o il più profondo, di sé: una porzione nell’universo dell’arte, della storia, della religione e dello spirito, della conoscenza e del pensiero. Un posto particolare, si direbbe, in un panorama generale sterminato e tormentato pieno di meraviglie che forse mai nessuno arriverà a conoscere appieno davvero.
Padova, pur piccola, è davvero ricchissima, per tutti.
Di questi tempi accade spesso di sentire parlare di “identità” da più parti, non di rado attribuendo al termine significato e finalità politiche o ideologiche di varia tendenza: di riconoscimento del valore e dell’importanza della cultura e tradizione di un popolo, per esempio; come del suo orgoglio o volontà di riaffermazione rispetto ad altri. L’identità viene spesso associata alla storia e ai luoghi della storia (di una nazione, di una popolazione, di un gruppo, ecc.): un circuito immateriale-materiale “simbolico” che serve spesso a mantenere saldo lo spirito di coesione e d’appartenenza in contrapposizione, o in conflitto, con spinte opposte volte alla cancellazione o stravolgimento (pacifico o forzato) della propria cultura e tradizioni. I simboli sono punti di riferimento importanti e forti per l’immaginario collettivo di una nazione, come di una piccola comunità. È sicuramente una medaglia con più rovesci, talvolta molto controversi e persino pericolosi, come il nazionalismo estremo che si nutre di retorica e patriottismo.
Padova ha molti luoghi di grande significato identitario: tutti compresi tuttavia all’interno di un quadro di grande universalità culturale condivisa e senza confini, mai in contrapposizione o in competizione ideologica con il resto del mondo. Se parliamo dell’antica Università, come dei capolavori di Giotto o del Menabuoi, oppure di S. Antonio o del grandissimo Prato della Valle come delle sue lunghissime mura rinascimentali (alcuni dei suoi più celebri monumenti conosciuti ovunque) non possiamo, come padovani, che esserne fieri sapendo tuttavia che essi rappresentano sempre e comunque la punta dell’iceberg della grandezza positiva della nostra specie nel mondo: e che ciò che abbiamo non l’abbiamo ricevuto certo per merito nostro, ma di chi ci ha preceduto.
Non tutti gli spazi, luoghi od oggetti, tuttavia, pur significativi di Padova sono diventati “identitari” nel tempo, rimanendo invece nascosti o cancellati nella memoria della gente. L’ex macello di Padova di via Cornaro, con la sua storia, con il suo monumentale complesso di edifici e con l’intera area di contesto ne è un esempio clamoroso e, persino, doloroso: cercheremo di spiegare il perché di questa idiosincrasia.
Chi conosce il passato di Padova e del quartiere Portello (e, prima ancora, della contrada di Ognissanti e del borgo omonimo, sin dalle origini “avviluppato” attorno e lungo l’asse viario dell’antica via Annia-Altinate e lungo le sponde delle vie fluviali che da Padova uscivano per raggiungere la riviera adriatica) sa, e forse “sente”, che nei suoi vicoli e strade aleggia lo spirito di una storia lunga quasi tremila anni. Come dimostrato da ampi scavi novecenteschi, in quell’area si estendeva (e si estende in parte ancora, con ogni probabilità sotto la superficie dell’ex macello, mai scavato) la “città dei morti”, la dimora ultima dei nostri antenati paleoveneti e successori, da sempre deposti intenzionalmente a oriente: quasi a precedere e ad accogliere, come il sorgere del sole, l’arrivo di coloro che provenissero dal mare, da Altino, da Ravenna, da Concordia o dai centri lagunari venetici; o a salutare chi lasciasse la città per recarsi laggiù. Lungo l’alveo e sulle rive del S. Massimo- Roncajette (anticamente Medoaco-Retrone-Bacchiglione) che attualmente fiancheggiano il mattatoio novecentesco a nord, possiamo immaginare con certezza centinaia di migliaia di nostri antecessori in transito: a piedi, a cavallo, in barca, per millenni. Possiamo immaginare che le sue sponde abbiano verosimilmente visto le truppe dei padovani accorrere (in barca o sui formidabili cavalli patavini noti nell’antichità) per piombare sull’accampamento dello spartano Cleonimo nel 302 a.C. per distruggere la sua avanguardia e tornare in città con i trofei di guerra, come e raccontato da Livio… Potremmo vedere, con “realistica” fantasia, innumerevoli imbarcazioni onerarie romane zeppe di merci dirette nel cuore della ricchissima Patavium (quarta città dell’Impero) presso il ponte di S. Lorenzo e di Altinate (antica zona portuale) e oltre; assistere alla partenza di migliaia di legionari diretti ad Aquileia e ai confini del mondo romano; osservare l’arrivo da est delle orde barbariche, degli invasori e nemici secolo dopo secolo (i Visigoti di Alarico, gli Unni, i Longobardi di Agilulfo, gli Ungari, ecc.; e poi la presenza dei Crociati e dei Templari nel basso medioevo, con il loro vicino “punto di raccolta” in terraferma veneta (il “porto del sale”, visibile ancora in tracce sul Roncajette) e d’acquartieramento (la chiesa-monastero di S. Maria Iconia sulla via per Venezia, oggi via Belzoni); il passaggio delle truppe di Ezzelino e degli imperiali seguite da quelle della Lega tra Papa e Comuni, assedianti (ed espugnanti) porta Altinate nel 1256; l’assedio e gli assalti alle mura carraresi del Portello da parte dei Veneziani contro Francesco Novello da Carrara nel 1404; quello degli asburgici di Massimiliano tentato ancora nel 1509-1513 e le sortite delle milizie della Serenissima dirette in a sud di Padova verso Bovolenta a difesa del Polesine nei sanguinosi anni di “guerra guerreggiata” protrattasi fino al 1516… e poi secoli successivi di commerci pacifici, nel chiuso rassicurante delle formidabili mura erette attorno (e soprattutto in quel punto strategico, difeso con l’ineguagliabile “porta d’acqua” del ponte delle Gradelle di S. Massimo) alla città, mai più attaccata dagli eserciti e difesa solo dai contrabbandieri.
C’è bisogno di altra narrazione per sentirci eredi di una epopea storica come poche?
Ma se la storia di Padova e quella del quartiere-borgo di Ognissanti/Portello coincidono fino all’età contemporanea, non meno significativa e particolare (diremmo “unica”) è quella che segue nel Novecento. Ci sono almeno due capitoli di innovazione e sviluppo civile e che rendono onore e gloria alla città partendo da quel piccolo quadrilatero racchiuso tra mura, canale S. Massimo e via Cornaro noto come “Ex Macello di Padova”: sono il complesso monumentale per la macellazione delle carni (il “macello”, appunto) sorto nel 1909 su progetto dell’ing. A. Peretti che ancora ammiriamo, preziosa e rara testimonianza di archeologia industriale e sanitaria sopravvissuta in Italia; e la nascita (1975) e sviluppo del progetto culturale innovativo denominato C.L.A.C (Comunità per le Libere Attività Culturali) autentico Bene Immateriale sociale, attivo come laboratorio di esperienze culturali plurime, poliedriche e libere: un’associazione di associazioni riconosciuta a livello mondiale che ha visto partecipare decine di migliaia di persone in 40 anni in varie forme.
Il primo degli esempi citati (il mattatoio pubblico di via Cornaro) non fu che l’ultimo dei siti presenti a Padova dedicati a tale funzione d’importanza fondamentale per la salute e alimentazione pubblica. A partire dalle “Beccherie carraresi” sul Naviglio (tra il ponte di S. Lorenzo e l’omonimo, lungo la sponda orientale) passando per il Macello jappelliano (1821) eretto sulle mura cinquecentesche di Porciglia (un capolavoro, all’epoca, architettonico e funzionale) sino alla collocazione del nostro nell’estrema propaggine (poco abitata) della cinta murata presso l’uscita del S. Massimo verso la campagna, si assistette ad un progressivo inarrestabile avanzamento tecnologico e sanitario, in cui il macello del Peretti costituì il culmine innovativo, destinato a produrre effetti positivi per decenni. Rappresentò infatti una soluzione straordinariamente efficace, sul solco di un analogo e precedente (di poco) modello tedesco di mattatoio costruito a Offenbach.
In esso tutto il processo veniva concepito secondo linee razionali di separazione delle specie animali sin dall’ingresso, al loro controllo preventivo, alla meccanizzazione delle procedure di uccisione e taglio, al trasporto separato dei quarti con mezzi aerei (ganci su mono-rotaie sospese convergenti su una linea aerea principale diretta ai frigoriferi o ai banchi di vendita senza incroci con altre linee di macellazione diverse e senza ritorno dei pezzi); alla eliminazione delle carni infette e dei resti animali con metodi rigorosi e scientifici (autoclavi e digestori); alla sosta preventiva degli animali arrivati in attesa di trattamento, ecc.). Non fu solo l’applicazione di una nuova concezione metodologica e tecnica della macellazione in sé in funzione di una migliore efficienza produttiva e sanitaria. Quel Macello Pubblico rappresentò una delle molteplici opere messe in campo dalle amministrazioni comunali dell’epoca per elevare le condizioni di salute e progresso umano della popolazione di tutta Padova e del suo territorio, soprattutto delle classi più povere. Basti pensare al Cimitero Maggiore (dal 1882), all’ampliamento dell’Ospedale Civile (e, in particolare alla costruzione di quello psichiatrico, sorto ex novo a Brusegana), alle case popolari di via Dalmazia, Bezzecca, Sanmicheli e altre; alle scuole e aule all’aperto per bambini tubercolotici erette sui bastioni delle mura (Luttazzi-Dina; Randi; S. Croce, ecc.). Tutta una serie di provvedimenti volti alla promozione e innalzamento della condizione umana in una Padova post-unitaria afflitta da enormi problemi di povertà, malnutrizione e degrado.
Anche di questo, tutti i Padovani (e non solo i “Portelati”) dovrebbero andar fieri…
Lo spirito di progresso civile e sociale che accompagnò quella fase storica a Padova, emergendo come esempio illuminato di gestione del sapere pubblico in campo sanitario (al Portello e nell’ex Macello in particolare) non si esaurì alla chiusura e dismissione dell’impianto, divenuto obsoleto nel 1975. Quella stessa anima progressista e innovativa in campo tecnologico e politico di allora trovò in quello stesso anno una nuova forma di manifestazione, una “transmutazione” in campo culturale con la materializzazione e formalizzazione di un’idea innovativa e rivoluzionaria in ambito intellettuale e associativo mai tentata prima a Padova (se non forse, 750 anni prima, con l’Università degli Studi): la costituzione della Comunità per le libere Attività Culturali, associazione di associazioni libere, apartitiche, aconfessionali, di ogni genere, tendenza e ceto sociale, volte a promuovere e condividere le esperienze di chiunque volesse dedicare e dedicarsi a coltivare interessi e passioni per la cultura in senso lato, senza limiti se non la legge.
Il tutto promuovendo e lottando da subito per la salvaguardia del complesso monumentale appena dismesso e per la sua valorizzazione come sito per lo sviluppo della cultura della città attraverso i suoi cittadini organizzati e associati senza fini di lucro. Seguirono 40 anni di ininterrotta attività associazionistica (centinaia furono le associazioni coinvolte) e di lotte culturali e politiche per affermare questo principio, di cui grande protagonista fu Francesco Piva. Ricordiamo, tra mille iniziative e traguardi, solo il vincolo paesaggistico apposto sull’area nel 1986 grazie alla CLAC; e il riconoscimento ricevuto dalla stessa nel 1991 al Congresso Internazionale “World Treasure” di Dakar dell’Organizzazione Mondiale dei Club per l’Unesco affiliata all’Unesco.
Quanto basta, credo, per sentirsi davvero orgogliosamente padovani passeggiando nell’ex macello o parlando di quel posto in qualunque parte d’Italia e del mondo.
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Foto dalla pagina Facebook Rete Beni Comuni – Padova