Il 14 e 15 giugno a Dolo (Ve), promosso dal Centro di documentazione e d’inchiesta sulla criminalità organizzata in Veneto e dal Laboratorio dell’inchiesta economica e sociale, si terrà un importante convegno di studio intitolato “Immaginari e pratiche criminali in Veneto a dieci anni dall’inchiesta Mose”. Una vicenda che rimane ancora, in un certo senso, invisibile.
Come evidenziato da Gianni Belloni e Antonio Vesco, infatti, «essa è stata sostanzialmente rimossa dal dibattito pubblico». A tal proposito, basti pensare a come già il politologo Alfio Mastropaolo, riferendosi ai paradossi della democrazia, evidenziava l’ambiguità della percezione pubblica della corruzione: «malgrado la sua impopolarità nel dibattito pubblico, la corruzione, spesso anche quand’è accertata, non provoca che reazioni circoscritte e limitati sommovimenti elettorali».
È quindi a fronte del nascondimento di questo scandalo corruttivo dal dibattito pubblico che si impone oggi, nel decennale della sua emersione, l’urgenza di riflettere ancora sulle ragioni sottese al suo radicamento e alla sua pervasività.
È possibile iscriversi al convegno a questo link.
di Jacopo Ostuni
1. Venezia come specchio d’Italia. Visibilità e nascondimento della corruzione
Eppure è paradossale che la disunità d’Italia (non solo divisa in un Nord e un Sud, ma anche in molte più fratture di quante potessero apparire – almeno superficialmente – vent’anni fa, al tempo dell’esplosione della Prima repubblica) tragga alimento da un comune, indistinto mare di corruzione[1].
Alessandro Leogrande
Comprendere un fenomeno sociale complesso e strutturalmente invisibile, come quello dei sistemi corruttivi in Italia, si rivela estremamente problematico. La molteplicità delle sue forme, la sua ormai lunga storia e, soprattutto, le specificità dei contesti locali (economici e sociali) in cui si manifesta, sono solo alcuni degli elementi che testimoniano la profonda frammentazione del tema e la difficoltà della sua definizione.
Problematica è, in primo luogo, la scelta delle lenti metodologiche da adoperare nell’analisi dei fenomeni corruttivi. Se si guarda, infatti, alla corruzione unicamente o in larga parte attraverso gli occhi della magistratura (o degli apparati di contrasto in senso lato), attingendo principalmente da fonti di matrice giudiziaria – certamente indispensabili per lo studio di fenomeni segreti come quelli criminali, e nondimeno limitanti se il fine è quello di comprendere le dinamiche più profonde che innervano i tessuti sociali in cui essi prendono forma – l’immagine che se ne ricava ci appare ben lungi dall’esaurire la complessità del fenomeno[2].
Basti anche solo pensare all’estensione e alla profondità delle relazioni che gravitano attorno allo «scambio corrotto», per comprendere come non sia possibile cogliere, con un solo sguardo, l’architettura relazionale di un fenomeno che non può essere ridotto ad una definizione semplice e univoca che non tenga conto di questa complessità[3].
A tal proposito, si potrebbe richiamare brevemente la ben nota immagine dell’«area grigia» per comprendere, a un tempo, l’opacità del tema e l’ambiguità che avvolge le interazioni che avvengono in questo spazio. Secondo Rocco Sciarrone la corruzione troverebbe, infatti, la sua «massima potenzialità di espressione» precisamente all’interno di questo «terreno di incontro e di compenetrazione tra forme diverse di illegalità e di criminalità»[4].
Il perimetro invisibile di questo «campo di interazione»[5] si mostra, dunque, come estremamente instabile e incerto, anche solo se si guarda alla ineludibile difficoltà che si incontra nell’«attribuire responsabilità e accertare condotte di contiguità e complicità»[6] degli attori della corruzione. La sua analisi diviene ancora più complicata se poi si provano ad osservare i confini invisibili del suo campo che, nella realtà quotidiana, si disperdono nella sostanziale indistinzione di ruoli che permea il tessuto in cui operano i suoi protagonisti. Tali confini, che coincidono essenzialmente con la fragile distinzione tra il lecito e l’illecito, ci impongono un’analisi della corruzione che sia scevra di ogni tipo di semplificazione. Su questo punto, le parole del politologo Alfio Mastropaolo riescono a cogliere perfettamente il carattere di opacità che caratterizza questa distinzione:
Quando si affronta il tema della corruzione, i confini tra ciò che è lecito e ciò che non lo è sono in realtà mobili: sono anzi un altro esempio illustre di confini contesi. (…) Che tali confini siano mobili è non solo ovvio, data la difficoltà a interpretare e applicare qualsiasi regola, ma corrisponde anche alla scarsa visibilità del fenomeno e alle risorse di potere e alla complicità di cui i suoi protagonisti dispongono[7].
Dell’invisibilità dei fenomeni corruttivi parlava già Vincenzo Ruggiero, che nei suoi esercizi di “anticriminologia” riconduceva il loro nascondimento alla difficile individuazione delle vittime dello «scambio corrotto». Ruggiero scriveva dell’invisibilità della vittima, poiché invisibili e difficilmente definibili sono i ruoli degli attori coinvolti nello scambio, e difficilmente imputabili sono le responsabilità: «gli attori sono asimmetricamente ma egualmente determinati a realizzare uno scambio, e insieme a questo, sia pure illegalmente, i loro interessi privati»[8]. La corruzione rientrerebbe dunque, come scrive il criminologo critico, nell’«universo dei cosiddetti reati senza vittima»[9], in cui l’invisibilità di quest’ultima è dettata precipuamente dall’assenza di una assoluta e precisa distinzione tra i ruoli degli attori coinvolti.
Il proposito di indagare le cause di un fenomeno sociale i cui effetti sono difficilmente rilevabili o percepibili sembrerebbe, a questo punto, irrimediabilmente frustrato. Se si guarda, in particolare, al contesto dei fenomeni corruttivi in Italia, tale compito assume contorni ancora più sbiaditi e incerti. Alessandro Leogrande scriveva di «un comune, indistinto mare di corruzione»[10] per descrivere ciò da cui “trae alimento” la «disunità d’Italia», un paese diviso e frammentato non solo in un Nord e in un Sud, ma in più tasselli, imperfetti e smussati, che assieme compongono un mosaico impossibile da osservare nella sua composita unità se si trascurano le specificità delle sue geografie. Lungi, però, dal disperdere lo sguardo sull’indefinitezza del “mare” della corruzione, le riflessioni che seguono rispondono primariamente alla necessità di osservare i fenomeni corruttivi attraverso una ben precisa messa a fuoco delle loro declinazioni locali e particolari, nel tentativo di delineare un orizzonte analitico che tenga conto delle specificità insite negli odierni casi di corruzione sistemica. È in questo primo senso che l’importanza dell’inchiesta “Mose”, a dieci anni dal suo avvio, risuona nella congiuntura del nostro tempo, chiamandoci a riflettere ancora non solo sulle cause della duratura tenuta del sistema corruttivo, ma soprattutto sui suoi effetti e sulle ragioni sottese all’emersione del fenomeno.
Lo scandalo che ha coinvolto il Consorzio Venezia Nuova ha portato alla luce lo scheletro di un sistema corruttivo che fa del Nordest uno specchio “invisibile” che riflette, a un tempo, le dinamiche politiche e imprenditoriali nazionali, e le loro specifiche manifestazioni nei contesti locali, che ci permettono di cogliere le specificità dei singoli fenomeni corruttivi. È solo calibrando la nostra osservazione sulla «netta e precipua declinazione locale»[11] del caso “Mose”, infatti, che si rende possibile cogliere le ragioni della diffusione e della normalizzazione delle pratiche corruttive, a partire dalla considerazione dei processi di costruzione del consenso sociale che rendono possibile la loro sussistenza e che alimentano la loro perpetuazione.
Con il caso “Mose” assistiamo, dunque, allo «stratificarsi di logiche diversificate»[12] a più livelli. Tale stratificazione ci richiama, in primo luogo, a riflettere sui processi più ampi e strutturali in cui il caso si inserisce, sondando il terreno economico e giuridico su cui il sistema corruttivo si è costruito nel tempo. In questo senso, il dispositivo giuridico del “concessionario unico” – notoriamente considerato come la radice della legittimazione dell’operato del Consorzio Venezia Nuova – è solo la più visibile escrescenza di un più generale processo di privatizzazione della sfera pubblica che arriva sino ad oggi, come testimoniato anche dai più recenti casi di corruzione offerti dalla cronaca odierna. A tal riguardo, si veda il recente articolo di Alfio Mastropaolo, dove in riferimento a un recente caso di corruzione politica, il politologo parla di capitalismo clientelare:
Lo chiamano crony capitalism, quando l’intreccio tra capitalismo, politica e governo diviene intimo e sopprime la concorrenza. Pressato dal declino della manifattura, al capitalismo non sono bastate finanziarizzazione, privatizzazioni e deregulation. Ha messo a reddito la politica democratica, che, per parte sua, ha subito una mutazione radicale. I media, per lo più privati, hanno espropriato i partiti dell’azione d’informazione e propaganda e li hanno ridotti a cordate di potere. Riservate ai ceti abbienti. Si è soprattutto indebolita l’autorità pubblica, ridisegnando l’andamento di quelle che un grande sociologo come Norbert Elias chiamava «lotte per il monopolio»[13].
A un secondo livello, proprio a partire dall’ampia dimensione strutturale e nazionale in cui il sistema “Mose” si inserisce, ne discende la sua declinazione locale e regionale, in cui può essere osservato più da vicino il complesso intreccio delle interazioni tra politica e impresa che innervano il tessuto sociale veneto. Se, riprendendo ancora Leogrande, «Taranto è specchio d’Italia quanto lo sono la Regione Lazio, Reggio Calabria e la Milano un tempo “capitale morale” del paese», la laguna veneziana diviene un ulteriore specchio deformato del comune sostrato da cui attingono i fenomeni corruttivi in Italia.
2. Il terreno normativo della corruzione. La salvaguardia di Venezia nel capitalismo contemporaneo
L’osservazione ravvicinata del sistema “Mose” non può prescindere da una prima, generale, ricognizione delle cause della sua formazione, a partire dal processo di legittimazione istituzionale che l’ha permesso. La seconda legge speciale per la salvaguardia di Venezia promulgata nel 1984 ha disposto mediante il dispositivo giuridico del “concessionario unico” l’assunzione da parte di un soggetto privato, il cartello di imprese Consorzio Venezia Nuova (CVN), di un «compito vasto e indefinito come la sperimentazione, la progettazione e l’esecuzione delle opere necessarie per la salvaguardia della Laguna»[14]. A questo primo livello, il fenomeno corruttivo del “Mose” va ricondotto a un processo di privatizzazione[15] della corruzione sistemica nella sfera pubblica che, secondo Donatella della Porta e Alberto Vannucci, avrebbe provocato una «traslazione del baricentro degli scambi corrotti a vantaggio degli attori privati»[16]:
Le nuove forme di corruzione organizzata in Italia muovono il baricentro invisibile di potere dagli attori partitici e politici – secondo il modello svelato da Mani pulite – verso dirigenti e funzionari pubblici nonché una gamma eterogenea di attori privati: imprenditori, mediatori, faccendieri, professionisti, gruppi criminali. L’evoluzione sotterranea della corruzione in Italia si innesta dunque in una tendenza più generale di trasformazione delle relazioni tra Stato e mercato, che ha visto deregolamentazione e privatizzazione di servizi pubblici moltiplicare occasioni di scambio informale in nuovi contesti, nei quali la gestione privatistica o liberalizzata degli interessi pubblici è stata in concreto affidata a comitati d’affari di varia composizione[17].
Il processo generale di deregolamentazione e privatizzazione dei servizi pubblici in cui si inserisce il caso specifico del sistema corruttivo imperniato sul CVN, può essere compreso solo a partire dall’intreccio tra apparati normativi e direttive politiche nazionali. Secondo della Porta e Vannucci, sarebbero proprio questi assetti normativi e regolativi a produrre la «valenza estrattiva»[18] delle istituzioni, le quali predispongono il terreno fertile per il «successo di soggetti e organizzazioni politiche ed economiche più efficienti in attività di natura predatoria, parassitaria e redistributive finalizzate alla cattura di rendite, come la corruzione»[19].
È in tal senso che il dispositivo del “project financing” diviene, dunque, uno dei principali strumenti della «conversione del rischio d’impresa in un enorme onere per la finanza pubblica»[20]. Se si osserva, dunque, la “concessione unica dello Stato” nei suoi effetti a lungo termine, appare quasi evidente come la corruzione sia corollario di questo dispositivo giuridico. Questo primo aspetto fondativo della legittimazione del sistema “Mose” costituisce, dunque, il primo atto di un più ampio processo di «deregolamentazione nel settore delle grandi opere»[21] che ha portato, di fatto, ad una progressiva privatizzazione della gestione delle risorse pubbliche:
Questo processo si è realizzato anche a seguito della crescente cessione di risorse, potere e controllo da parte dello Stato, come dimostra l’impiego estensivo di formule societarie di matrice privatistica o di modalità di affidamento e di gestione dell’iter procedurale relativo ai contratti pubblici (general contractor, project financing, concessioni, etc.) nelle quali i privati – imprenditori, professionisti, intermediari – di fatto condizionano o determinano selezione e attività dei soggetti che dovrebbero supervisionarne l’operato»[22].
In un articolo del 2014, all’indomani dell’emersione dello scandalo “Mose”, Beppe Caccia parlava di un fenomeno di «costituzionalizzazione della corruzione», individuando nel caso “Mose” il paradigma italiano di un più generale processo che ha interessato, a partire dagli Stati Uniti, «la struttura del diritto di gran parte dell’emisfero nord-occidentale del mondo globalizzato, consegnando un enorme potere di condizionamento della decisione politica alla forza economica dell’impresa capitalistica»[23]. Caccia evidenziava in questo modo il carattere radicalmente estrattivo[24] di un dispositivo predatorio e parassitario strutturalmente intrecciato alle logiche del capitalismo contemporaneo: «In questo modello la corruzione non è un incidente di percorso, ma un pilastro portante. Non la patologia, ma la fisiologia di un modello»[25]. A tal proposito, basti anche solo pensare a come Alessandro Baratta sottolineava già, in riferimento allo studio della criminalità dei colletti bianchi, come tra processi legali e illegali di accumulazione vi fosse nella società capitalistica una «relazione funzionale oggettiva»[26]. È dunque in questa prima cornice che il carattere paradigmatico della seconda legge speciale per la salvaguardia di Venezia assume ancora più pregnanza.
La legittimazione normativa e politica che discende dalla legge speciale bis non si riduce, però, soltanto ad aver permesso la gestione privata delle risorse pubbliche da parte del Consorzio. Come evidenziato da Gianni Belloni e Antonio Vesco, infatti, l’assunzione della guida di un «processo ontologicamente non predeterminabile a priori»[27] come quello della salvaguardia della laguna, va oltre la semplice esecuzione delle opere. È essenzialmente a partire da questa peculiare concessione che si sostanzia il monopolio delle ricerche, dello studio e della progettazione dell’opera: «il controllo dei risultati degli studi, l’interlocuzione diretta con i dipartimenti di ricerca, la disponibilità e l’autonomia nel finanziare ricerche hanno permesso negli anni al Consorzio di condizionare il dibattito scientifico, indirizzandolo verso le soluzioni più gradite»[28].
3. Corrotti e corruttori. La politica della corruzione e la sua dimensione locale
Se, da un lato, i processi appena descritti sembrano imputare le cause del fenomeno a fattori ben precisi, dall’altro le radici del “sistema Mose” sembrano affondare in un indefinito terreno di relazioni, in cui la «sostanziale indistinzione tra i ruoli»[29] dei corrotti e dei corruttori sembra mettere in discussione i convenzionali poli dello «scambio occulto»[30]. I sistemi corruttivi in Italia hanno una lunga storia, che vede nell’inchiesta “Mani pulite” la più icastica manifestazione del profondo intreccio tra mondo politico e mondo imprenditoriale, che costituisce il sottosuolo del terreno in cui gli attori sociali dello «scambio occulto» si incontrano.
Con il tramonto del governo partitico della corruzione, fenomeno che gli studi più rilevanti in materia individuano come un’importante cesura nell’avvicendarsi dei fenomeni corruttivi in Italia, la funzione politica degli scambi occulti sembra essere mutata: «Nello scenario post-Tangentopoli, dunque, la corruzione serve sempre meno a finanziare i partiti e i politici sembrano giocare un ruolo meno attivo rispetto al passato, restando però comprimari dello scambio occulto»[31].
Ciononostante, il suo protagonismo non sembra essere tramontato, continuando anzi a rivestire un ruolo preminente all’interno delle dinamiche corruttive. A fronte del generale processo di “depoliticizzazione” della corruzione che vede nella «perdita di centralità dei partiti» e nell’«uso privatistico delle risorse» le sue linee di sviluppo più significative, non assistiamo affatto a «una completa scomparsa della politica o una sua estraneità, ma piuttosto un occultamento del carattere politico dei processi»[32]. Lo scandalo corruttivo che ha coinvolto Il Consorzio Venezia Nuova scaturisce da un fenomeno certamente diverso dai precedenti casi di corruzione sistemica – per certi versi più facilmente inquadrabili nell’individuazione dei centri del potere corruttivo – e nondimeno più rilevante e significativo per l’osservazione del nuovo adattamento delle sue dinamiche nei contesti locali.
Il perdurare nel tempo di questo sistema corruttivo in territorio veneto non sarebbe mai stato possibile, infatti, senza il forte radicamento delle «relazioni preesistenti negli scambi corrotti»[33] nel suo tessuto sociale. La costruzione del consenso attorno il CVN si è fondata, infatti, anche sulla presenza di competenze e prassi «preesistenti e autonome»[34] rispetto alla nascita del sistema corruttivo. In questo contesto, il ruolo preminente degli attori politici locali risulta ancora determinante. Come è stato notato, infatti, i politici veneti non rivestivano un «ruolo di sudditanza» nel rapportarsi agli imprenditori locali, ma svolgevano anzi un ruolo di assoluta preminenza nel garantire l’ordine e la buona tenuta della rete corruttiva. Accanto ai politici, il principale ruolo “politico” di governo del sistema corruttivo rimane, però, quello rivestito dal presidente del Consorzio Venezia Nuova. Queste le molteplici funzioni esercitate dal principale garante del sistema:
Queste le funzioni esercitate con regolarità: socializzare alle regole, verificarne l’adempimento, minacciare ritorsioni a recalcitranti e inosservanti, appianare dispute, far allontanare i funzionari pubblici indisponibili, aprire (e chiudere) i cordoni della borsa (specie in occasione delle campagne elettorali) con gli interlocutori politici, erogare «stipendi» in nero ai dirigenti pubblici, dei quali pilota le nomine[35].
L’autorità personale del presidente del CVN si rivela, pertanto, essenziale alla comprensione delle dinamiche locali di legittimazione del consenso, costituendo anzi un esempio estremamente significativo se si vuole osservare il tema della “personalizzazione” del governo della corruzione[36].
Conclusioni. La percezione dello scandalo “Mose” tra attualità e rimozione
È precisamente all’interno di questo complesso intreccio di cornici che il sistema corruttivo del Mose assurge ad essere un’imprescindibile lente d’osservazione delle forme e modalità della corruzione sistemica nella congiuntura storica del nostro tempo. Come hanno mostrato Belloni e Vesco, dinanzi all’odierna diffusione di fenomeni corruttivi – che, lungi dall’essere isolati e occasionali, dipendono dalla strutturale relazione tra le modalità «del fare politica e del fare impresa»[37] – il caso Mose ci ricorda come il «terreno della corruzione (sia) il luogo predestinato d’incontro»[38] di questi attori sociali. Osservare criticamente tali fenomeni significa, dunque, mettere a fuoco i caratteri specifici del contesto locale in cui prende forma l’inestricabile intreccio tra il campo della politica e il mondo imprenditoriale[39]. Lo scandalo corruttivo del Mose, «il più imponente caso di corruzione della storia repubblicana»[40] è il riflesso più evidente di questo nodo gordiano.
Nondimeno, a dieci anni dall’inchiesta che ha disvelato il sistema corruttivo imperniato sul Consorzio Venezia Nuova, la vicenda rimane ancora, in un certo senso, invisibile. Come evidenziato ancora da Belloni e Vesco, infatti, «essa è stata sostanzialmente rimossa dal dibattito pubblico»[41]. A tal proposito, basti pensare a come già il politologo Alfio Mastropaolo, riferendosi ai paradossi della democrazia, evidenziava l’ambiguità della percezione pubblica della corruzione: «malgrado la sua impopolarità nel dibattito pubblico, la corruzione, spesso anche quand’è accertata, non provoca che reazioni circoscritte e limitati sommovimenti elettorali»[42]. È quindi a fronte del nascondimento di questo scandalo corruttivo dal dibattito pubblico che si impone oggi, nel decennale della sua emersione, l’urgenza di riflettere ancora sulle ragioni sottese al suo radicamento e alla sua pervasività.
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Sitografia
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Note
[1] Alessandro Leogrande, Dalle macerie. Cronache dal fronte meridionale, Feltrinelli, Milano 2018, pp. 212-213.
[2] Cfr. A. Iannello, A. Vesco, Tra repressione e conoscenza. La ricerca sul fenomeno mafioso e il problema politico del rapporto con le fonti. Un ulteriore “problema” metodologico, condiviso tra le ricerche sulle mafie e quelle sulla corruzione, è quello della «circolarità delle fonti». Cfr. Ombretta Ingrascì, Monica Massari, (a cura di), Come si studiano le mafie? La ricerca qualitativa, le fonti, i percorsi, Donzelli Editore, Roma 2022, p. XIV.
[3] Cfr. R. Sciarrone, (a cura di), Politica e corruzione. Partiti e reti di affari da Tangentopoli a oggi, Donzelli, Roma 2017, pp. 49-50. Altrettanto interessante è la questione del problema definitorio delle mafie, vicino a quello della corruzione per l’ambiguità del tema e per la questione della politicità del potere definitorio. A tal proposito, si veda l’articolo di Alessandra Dino La “forza del diritto”: attori, retoriche e campi sociali nella battaglia simbolica per la definizione del fenomeno mafioso, contenuto in Studi sulla questione criminale, XVI, n. 2, 2021.
[4] R. Sciarrone, (a cura di), Politica e corruzione cit., p. 50.
[5] Ivi, p. 49.
[6] Ivi, pp. 49-50.
[7] Alfio Mastropaolo, La democrazia è una causa persa? Paradossi di un’invenzione imperfetta, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 300.
[8] Vincenzo Ruggiero, Dei delitti dei deboli e dei potenti. Esercizi di anticriminologia, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 122.
[9] Ibid.
[10] A. Leogrande, Dalle macerie cit., p. 213.
[11] Gianni Belloni, Antonio Vesco, Come pesci nell’acqua. Mafie, impresa e politica in Veneto, Donzelli Editore, Roma 2018, p. 164.
[12] Ivi, p. 172.
[13] L’articolo è consultabile al sito: La corruzione è solo il dito, la luna è il «crony capitalism» | il manifesto.
[14] G. Belloni, A. Vesco, Come pesci nell’acqua cit., p. 166.
[15] Cfr. D. Della Porta, A. Vannucci, La corruzione come sistema. Meccanismi, dinamiche, attori, Il Mulino, Bologna 2021, p. 148.
[16] D. Della Porta, A. Vannucci, La corruzione come sistema cit., p. 149.
[17] Ivi, p. 76.
[18] Della Porta, Vannucci, La corruzione come sistema cit., p. 235.
[19]Ibid.
[20] Cfr. Beppe Caccia, Capitalismo estrattivo tra finanza, grandi opere e “malaffare”, a partire dal sistema Mo.S.E. in Veneto. Consultabile al sito: https://www.euronomade.info/venezia-la-banalita-della-corruzione-capitalismo-estrattivo-finanza-grandi-opere-malaffare-partire-dal-sistema-mo-s-veneto/.
[21] Belloni, Vesco, p. 167.
[22] D. Della Porta, A. Vannucci, La corruzione come sistema cit., p. 149.
[23] Beppe Caccia, Capitalismo estrattivo tra finanza, grandi opere e “malaffare”, a partire dal sistema Mo.S.E. in Veneto. Consultabile al sito: https://www.euronomade.info/venezia-la-banalita-della-corruzione-capitalismo-estrattivo-finanza-grandi-opere-malaffare-partire-dal-sistema-mo-s-veneto/. Cfr. Zephyr Teachout, Corruption in America. From Benjamin Franklin’s Snuff Box to Citizens United, Harvard University Press, Cambridge Mass. 2014.
[24] Per una più ampia ricognizione del concetto di estrazione nel capitalismo contemporaneo, si veda S. Mezzadra, B. Neilson, Operazioni del capitale. Capitalismo contemporaneo tra sfruttamento ed estrazione, Manifestolibri, Castel S. Pietro RM, pp. 195-206.
[25] Caccia, Capitalismo estrattivo tra finanza, grandi opere e “malaffare”, a partire dal sistema Mo.S.E. in Venetocit.
[26] Alessandro Baratta, Criminologia critica e critica del diritto penale. Introduzione alla sociologia giuridico-penale, Meltemi, 2019, p. 102.
[27] Belloni, Vesco, Come pesci nell’acqua cit., p. 166.
[28] Ivi, p. 168.
[29] Ivi, p. 180.
[30] Su questa “indefinitezza” si rimanda ancora a Vincenzo Ruggiero, Dei delitti dei deboli e dei potenti cit. Sul tema dei «crimini senza vittime» si veda anche A. Vannucci, Atlante della corruzione cit.
[31] Sciarrone (a cura di), Politica e corruzione cit., p. 29.
[32] Ivi, p. 83.
[33] Belloni, Vesco, Come pesci nell’acqua cit., p. 174.
[34] Ibid.
[35] Della Porta, Vannucci, La corruzione come sistema cit. p. 154.
[36] Cfr. Belloni, Vesco, Come pesci nell’acqua cit., pp. 169-172.
[37] Ivi, p. 187.
[38] Ibid.
[39] Sull’autonomia del campo politico, si veda P. Bourdieu, Proposta politica. Andare a sinistra, oggi, Castelvecchi Editore, Roma 2005.
[40] Belloni, Vesco, Come pesci nell’acqua cit., p. 163.
[41] Ivi, p. 185.
[42] A. Mastropaolo, La democrazia è una causa persa? cit., p. 302.
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