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L’assedio del sociale. Il Terzo settore tra criminalità, mercato e politica

È stato pubblicato il libro “L’assedio del sociale. Il Terzo settore tra criminalità, mercato e politica” a cura di Antonio Vesco e Gianni Belloni, edito da Mimesis nella collana Cartografie sociali (224 pagine).

L’opera è frutto di una ricerca promossa dal Cidv – Centro di documentazione e inchiesta sulla criminalità organizzata del Veneto, un progetto di Lies Aps, con l’Università Federico II di Napoli e l’Università di Torino, finanziata dalla Fondazione Finanza Etica, sulle dinamiche criminali nel Terzo settore, in particolare nella cooperazione sociale.

Il volume si trova nelle librerie o si può ordinare dal sito della casa editrice.

Di seguito pubblichiamo la quarta di copertina del libro e un estratto del primo capitolo.

Quarta di copertina

Quanto sono diffuse le pratiche criminali e corruttive nell’ambito della cooperazione sociale? In che modo i nuovi assetti dell’economia sociale possono favorirle? A dispetto dell’eco mediatica provocata da alcune vicende giudiziarie – dall’inchiesta Mafia Capitale a quella sulla famiglia del parlamentare Aboubakar Soumahoro – la ricerca sociale ha dedicato fin qui poca attenzione a questi problemi.

Frutto di una ricerca collettiva, il volume affronta, in una prospettiva socio-antropologica, il rapporto tra cooperazione sociale e criminalità alla luce delle più generali trasformazioni del Terzo settore, indagando il ruolo giocato dalla politica e dai processi di finanziarizzazione dell’economia non profit. A partire da due ampi studi di caso condotti in Campania e in Veneto, la ricerca analizza l’operato di gruppi criminali in diversi settori, tenendo conto della differente evoluzione storica della cooperazione sociale nelle due regioni.

Sono inoltre esaminati i processi di criminalizzazione di alcuni ambiti dell’economia sociale che producono un dibattito pubblico fortemente polarizzato, dalla gestione dei rifiuti all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale.

Estratto

Sulla storia, i caratteri e i tratti distintivi dell’economia sociale è stata eretta, negli anni, una abbondante e solida letteratura[1]. Qui ci limiteremo a ricordare che abbiamo a che fare con “un’impresa il cui punto di partenza non è il mondo della produzione di ricchezza, ma il mondo della distribuzione e redistribuzione. L’impresa sociale e, nello specifico, la cooperazione sociale, è sì una strategia produttiva, ma il suo luogo di elezione è il sociale, la riproduzione, l’assistenza, la redistribuzione” (de Leonardis et al. 1994, p. 23). Questa definizione generale ha il merito di richiamare con nitidezza il carattere ambivalente proprio dell’impresa sociale, che si è caricata sulle spalle il difficile compito di far convivere campi apparentemente in contrasto tra loro: mercato e socialità, economia e solidarietà.

La legge n. 381 del 1991 – il riconoscimento giuridico della cooperazione sociale – assume e ufficializza questa ambivalenza, mentre la cooperazione sociale arriva al riconoscimento giuridico avendo già maturato coscienza di sé e delle sue possibilità (Borzaga e Ianes 2006). La legge, infatti, non farà che recepire l’esistenza di un sommovimento politico, sociale ed economico che mirava a promuovere la coesione e l’inclusione sociale, nonché l’attenuazione delle diseguaglianze sociali, attraverso l’agire imprenditoriale collettivo. Per altro nello stesso anno vedrà la luce anche la legge quadro sul volontariato, la 266/91, un altro soggetto che compone il variegato mondo del Terzo settore. La cooperazione sociale, pur rientrando nell’antico solco della tradizione cooperativa, troverà all’interno di quel mondo una collocazione distintiva grazie alla sua portata innovativa: si tratta di una cooperazione non improntata sulla mutualità e sull’interesse degli associati, ma orientata alla solidarietà, all’interesse generale della comunità (Ivi). Quello che oggi definiamo Terzo settore, infatti, nasce alla fine degli anni settanta come un progetto eminentemente politico “in stretta connessione con le esperienze dei movimenti sociali dei decenni precedenti. Dopo quegli anni, molti attivisti hanno trasformato la loro dedizione alla lotta politica in impegno nell’erogazione di servizi” (Busso 2018, p. 1). Il riconoscimento normativo del 1991 faciliterà l’evolversi della cooperazione sociale e i suoi rapporti con la pubblica amministrazione nella gestione e nello sviluppo dei servizi sociali e dell’inserimento lavorativo. Un passaggio ulteriore e cruciale in questo senso è rappresentato dalla legge 328/2000, le cui norme regolano la programmazione del sistema integrato degli interventi e sociali abbattendo il confine tra i soggetti erogatori dei servizi e quelli responsabili della programmazione, secondo i dettami del modello della governance e di quello della sussidiarietà (Busso 2017). 

D’altronde – come emerge anche dagli studi di caso che compongono la nostra ricerca (cfr. capp. IV e V) – negli ultimi anni la vocazione ambivalente della cooperazione sociale è entrata in sofferenza a causa della radicalizzazione di alcune tendenze che l’hanno segnata in profondità e che andrebbero a innervare una sua vera e propria crisi (Girelli 2014). Tra queste vi è il progressivo affievolirsi delle idealità che hanno generato la nascita dei movimenti cooperativi, sia quelli di matrice socialista sia quelli ispirati alla dottrina sociale della Chiesa[2]. Del resto, il prosperare della cooperazione sociale è stato possibile a fronte di alcune condizioni di contesto e “non vi può essere impresa cooperativa in un contesto societario che non valorizza l’agire cooperativo” (Ivi, p. 59). L’assottigliamento delle spinte etiche contribuisce all’accelerazione del processo di isomorfismo tra profit e non profit. La necessità di stare sul mercato sollecita un approccio manageriale, che appare in netta discontinuità con le sfide sociali – e politiche – che gli stessi addetti alla cooperazione sociale affrontavano in passato. Sembra arrivare oggi a compimento quel processo “di progressiva professionalizzazione e commercializzazione”, insieme “alla attenuazione dal proprio ruolo politico”, che avrebbe preso il via negli anni ‘80 (Eikenberry e Kluver 2004), con l’ingresso dei soggetti del Terzo settore in vari ambiti del mercato, il più rilevante dei quali era quello delle politiche sociali[3].

È così che i mondi del profit e del non profit tendono oggi a compenetrarsi progressivamente e a vivere le medesime logiche, al punto che le loro stesse categorie distintive non riescono più a spiegare correttamente il funzionamento di ciascuno dei due ambiti. Questa compenetrazione – ammettono diversi esponenti della cooperazione sociale intervistati per questa ricerca – da un lato fa paura, dall’altro affascina. L’ormai conclamato isomorfismo con dinamiche tipiche del mercato, è temuto perché porta con sé lo snaturamento dei propri codici, l’oblio della propria specificità (Camarlinghi 2011, p. 89). Questa crescente apertura al mercato non solo avvicina profit e non profit ma sembra determinare un processo di ristrutturazione degli enti di Terzo settore, che si presentano ricorrentemente sotto forma di aziende orientate al profitto e burocratizzate[4]. Il settore appare così costellato da realtà che accrescono le competenze professionali in ambito manageriale e di gestione d’impresa (Galli e Tomè 2010). In questo quadro, “l’enfasi posta sul potenziale occupazionale e di crescita, unito alla crescente competizione di mercato, può […] associarsi a un impoverimento del ruolo sociale del Terzo settore” (Busso 2017, p. 487).

Tuttavia, oggi, a preoccupare gli operatori e i dirigenti delle cooperative non è solo l’isomorfismo con il profit, ma anche la perdita di una strategia originale che coinciderebbe con il cambiamento generazionale avvenuto nella dirigenza delle stesse cooperative. La seconda generazione di cooperatori – quella immediatamente successiva ai fondatori delle realtà nate nell’ultima parte del ‘900 – viene raccontata come una compagine fortemente votata a logiche manageriali e gestionali:

Non gliene faccio una colpa, ma [le cooperative sociali] si ritrovano chiuse in una situazione di gestione dell’ordinario, che per una serie di ragioni le porta sempre a una spending review, a ridurre i margini, a fare un’innovazione incrementale… Ma che le porta un po’ fuori da certi mercati e in generale fuori dalla società (Int. 6Ven, sociologo ed esperto di Terzo settore).

In definitiva, indagando questo mondo oggi attraverso gli sguardi degli attori che lo popolano, si ha la sensazione di una certa vulnerabilità. Una condizione di palpabile preoccupazione proviene infatti proprio dagli operatori della cooperazione, ai quali con questa ricerca ci siamo rivolti direttamente, allo scopo di ricostruire non soltanto i problemi e gli esiti concreti delle loro attività – già indagati da tanta letteratura –, ma anche le loro rappresentazioni, ambivalenze, traiettorie professionali, considerandoli di fatto interlocutori cruciali per comprendere dove va la cooperazione sociale e in che modo si producono le condizioni per lo sviluppo di attività illegali e criminali in seno a essa[5].

La sensazione di vulnerabilità che abbiamo registrato è in parte anche il frutto dei repentini cambiamenti introdotti nella legislazione: se oggi si va profilando un nuovo modello di partenariato pubblico-privato per gli enti del Terzo settore, già la riforma del codice degli appalti del 2016 indusse gli enti locali a bandire gare d’appalto per la quasi totalità dei servizi, compresi quelli di piccolo importo che fino a quel momento erano stati affidati in concessione[6]. Un cambiamento radicale che indusse nei cooperanti una diversa percezione del proprio ruolo, come chiarisce bene un dirigente della cooperazione da noi intervistato:

Il nostro mondo è un po’ sofferente in questi termini, non viene riconosciuta la qualità del nostro lavoro dal punto di vista economico e dal punto di vista della progettualità. In passato eravamo considerati dei partner dall’ente pubblico e quindi considerati nella programmazione, con il passaggio alle gare d’appalto siamo diventati i fornitori, quindi le decisioni si sono ritirate solo nel pubblico. Solo adesso che si pone la questione della co-progettazione, anche rispetto al Pnrr, l’ente pubblico si sta accorgendo che ha bisogno di competenze e di legami con il territorio. (Int. 24Ven, presidente centrale cooperativa).

Viene d’altronde segnalato da alcuni osservatori come i recenti cambiamenti legislativi possano creare la possibilità di redistribuire i costi tra amministrazioni pubbliche ed enti del Terzo settore (Borzaga et al. 2023, p. 207), poiché si tratta di mutamenti repentini che stressano organizzazioni talvolta fragili e in continua tensione.

Indipendentemente dalla cornice legislativa, il ritratto che emerge dalla letteratura disponibile e dalle interviste che abbiamo rivolto ai lavoratori di questo settore è una crescente ed esasperata competizione, che raggiunge anche alti livelli di conflittualità sociale (cfr. Mion 2014). Una trasformazione che ha preso avvio con la crisi economica del 2008, che avvicina sempre più questo mondo alle dinamiche di concorrenza che caratterizzano il mercato e che appare oggi difficile da arrestare: “Io non so come sarà nei prossimi anni… adesso aumentano anche i salari, giustamente, ma con le commesse non prendo più soldi […]. Dovrò fare qualche cosa – non dico di anti-sindacale – ma di ristrutturazione aziendale tale che mi consenta di sopravvivere. Secondo me così non va bene…” (Int. 5Ven, dirigente cooperativa sociale).

Come vedremo (cfr. cap. II), attualmente la fonte di finanziamento più rilevante per le cooperative sociali è ancora la pubblica amministrazione; il resto dei finanziamenti proviene principalmente dal mercato, ovvero dalla vendita di beni e servizi, mentre sono pressoché irrilevanti i contributi degli aderenti e i proventi da gestione finanziaria e patrimoniale. E dalla committenza pubblica provengono nuove richieste di maggiori competenze, capacità organizzative e di innovazione rispetto a un tempo, anche in merito ad attività apparentemente meno complesse. Le difficoltà economiche nelle quali versano numerosi enti di Terzo settore, aggravate dai rapporti di dipendenza con la politica, spingono le cooperative a un processo di disallineamento dalle tensioni solidaristiche su cui si fondano le originarie attività del non profit.

Anche l’assottigliamento e la precarietà delle fonti di finanziamento pubblico sembrano contribuire a proiettare in maniera decisiva gli enti di Terzo settore verso la sfera del mercato (cfr. cap. IV). Si assiste pertanto a un “elevato dinamismo” delle realtà cooperative, spinte verso la costruzione di partnership imprenditoriali mediante cui raggiungere un posizionamento strategico sul mercato, anche a seguito dell’ingresso in reti consortili “in cui l’elemento sussidiario e solidaristico va ad affiancarsi alle opportunità economiche che transitano nel network” (Delle Cave 2013).

Inoltre, affrontare le incertezze economiche e sociali ha voluto dire, per le cooperative sociali, attivare una serie di cambiamenti sia dei servizi sia di tipo organizzativo; uno sforzo di standardizzazione e di monitoraggio delle procedure che ha avuto ripercussioni sull’identificazione dei soci con l’organizzazione:

In alcuni casi questa cosa è stata accompagnata da interventi di qualificazione del personale. Ma non è stato facile far capire ai nostri addetti storici che bisognava lavorare in un certo modo, che a un certo punto la cooperativa cambiava, che bisognava rispettare certe regole, certi paletti. Mi dicevano: “Ma come, ci conosciamo, perché adesso mi dai tutti questi regolamenti?” (Cooperativa Solidarietà, Fondazione Nord Est, Co.Ge.S., Rebus, Angiari (Vr) 2012, p. 91).

La tendenza che emerge da questo panorama d’incertezza e di repentini cambiamenti è quella a una crescente divaricazione tra le grandi cooperative e le organizzazioni di piccole dimensioni (cfr. cap. II). Queste ultime, la cui risorsa principale sono i volontari, sono ancora gestite attraverso un’ampia partecipazione interna e il coinvolgimento dei membri, e sono in gran parte autofinanziate, basandosi su raccolte e iniziative di base. Le grandi cooperative, viceversa, presidiano la maggior parte delle risorse economiche e umane e concorrono agli appalti in aree diverse, perdendo così uno degli elementi specifici della cooperazione sociale, e cioè il legame con il territorio.

Il tema degli appalti e la competizione esasperata inaugurata con la riforma del 2016 sembra aver aperto a una crescente incertezza rispetto a ciò che è lecito e ciò che non lo è. In questo quadro, l’aumento delle soglie del subappalto apre potenziali varchi per l’ingresso di soggetti che si servono dello strumento della cooperativa per accedere ai lavori:

Ci sono queste maglie strane, chiaramente c’è qualcuno che ci sta pensando in maniera diversa da noi ma… perché un sistema per fare fatturato è questo: io voglio fare una gara, ma la gara la faccio fare a un altro, che mi dà tutto in subappalto e quel fatturato poi diventa mio e io posso fare un’altra gara. Ma si è rovesciato tutto, prima l’appalto non poteva essere superiore al 30 per cento e quindi era residuale, in qualche modo. Se adesso mi dai il fatturato al 100 per cento, diventa un avvalimento mascherato (Int. 5Ven, dirigente cooperativa sociale).

Il sistema degli appalti ha inoltre favorito le realtà cooperative in grado di offrire i ribassi maggiori, senza tenere conto della capacità e delle effettive possibilità di queste ultime di costruire e sviluppare reti di relazioni con le altre realtà locali: “Il legame con il territorio, il rapporto di fiducia con il contesto è più debole, perché sei costretto a fare gare in giro anche in posti dove non sei inserito”(Int. 14 Ven, dirigente cooperativa sociale). Uno stravolgimento che ha un impatto significativo sugli assetti interni delle stesse cooperative. L’aumento delle commesse da seguire e la dispersione, anche territoriale, dell’impegno di queste realtà penalizza notevolmente l’affiliazione e la partecipazione dei soci e dei lavoratori alla vita della cooperativa. A tutto questo si aggiungono le difficoltà legate al ricambio generazionale: “Il settore sta invecchiando precocemente […] oggi è molto più difficile attrarre i giovani, per questioni economiche ma anche di motivazioni, di aspirazione al cambiamento sociale, che probabilmente i ragazzi non trovano più lì dentro…” (Int. 14 Ven, dirigente cooperativa sociale).

I cambiamenti avvenuti nelle modalità di accesso alla gestione dei servizi hanno determinato la diffusa sensazione di un mutamento radicale degli assetti. La centralizzazione delle stazioni appaltanti in campo sanitario, ad esempio, determinano gare con importi molto alti dalle quali soggetti medio-piccoli rimangono sostanzialmente esclusi perché impossibilitati a competere con cooperative al passo con il nuovo assetto e che contano anche alcune migliaia di dipendenti.

Le piccole cooperative che non possono dotarsi dei mezzi necessari per accedere agli appalti rimangono così tendenzialmente escluse.

Le soglie fissate dal codice degli appalti obbligano di fatto queste realtà ad abbandonare la competizione, in favore di cooperative più strutturate che possono dimostrare di possedere gli strumenti per svolgere le attività richieste: “Poi le stazioni appaltanti su questo sono bravissime a selezionare ex-ante con chi vogliono avere a che fare, perché il codice degli appalti è fatto apposta per essere usato a fini discrezionali” (Int. 14Ven, dirigente cooperativa sociale).

È in questo contesto che si moltiplicano i varchi per dinamiche illegali, che aprono a loro volta a possibili interlocuzioni con mondi criminali. Questi meccanismi si inseriscono nelle più ampie trasformazioni dell’ultimo ventennio: dal crescente decentramento – in particolare in favore delle Regioni – delle prestazioni di welfare alla progressiva esternalizzazione di beni e servizi in favore di soggetti privati – compresi gli enti non profit – che possono comunque contare sul finanziamento pubblico. Come hanno mostrato Ascoli e Sciarrone (2015, pp. 222-223), in un paese che ha sempre mostrato serie difficoltà a controllare e regolare i territori, il decentramento dei processi decisionali e l’esternalizzazione dell’offerta di servizi hanno moltiplicato le possibilità che proliferassero pratiche illegali e “scambi occulti”. Come vedremo nei due casi studio del volume, i settori in cui si sono aperte finestre di opportunità per un uso illegale dello strumento della cooperativa sociale sono diversi: dall’accoglienza dei richiedenti asilo alla gestione dei rifiuti (cfr. cap. V), dalla gestione e manutenzione del patrimonio pubblico all’assistenza a minori e anziani (cfr. cap. IV).

Questo rischio sembra interessare, al momento, soprattutto le cooperative di tipo B, che appaiono oggi in difficoltà a stare sul mercato in un clima di concorrenza crescente: “Se non sono in difficoltà, vuol dire che ci sono dietro altre cose che non capiamo” (Int. 21Ven, dirigente cooperativa sociale). Più in generale, il problema si pone soprattutto quando le cooperative vengono utilizzate anche da altri operatori economici in dinamiche più grandi in cui rappresentano solo una tessera, più o meno consapevole, del puzzle. È il caso, ad esempio, delle speculazioni edilizie in cui si prevede una quota destinata a servizi sociali, che saranno così affidati a cooperative in grado di gestirli:

Non so… voglio andarmi a recuperare un piano di attuazione su un contesto particolarmente interessante, ci metto dentro… la struttura per accoglienza disabili, il centro per anziani eccetera, per poter dire: guarda, mi faccio la speculazione edilizia però lascio a te Comune, a te Regione… un’opera che è un’opera sociale importante e per accompagnare questo tipo di cose ho già la mia coop pronta che fa queste cose” (Int. 28Ven, avvocato).

Un altro fenomeno presente in letteratura e affrontato dai nostri interlocutori è quello delle cosiddette false cooperative, utili a trasferire i costi delle aziende – in genere s.r.l. – titolari dei contratti di appalto o, in alcuni casi, delle convenzioni per la gestione di strutture residenziali o di altro tipo. In questo caso, la cooperativa sociale diviene uno strumento in grado di fornire formalmente il servizio necessario e consentire al tempo stesso alle imprese di limitare i costi del lavoro. Questo meccanismo può favorire – e di fatto ha favorito – l’apertura di varchi per la gestione delle cooperative – e del lavoro – da parte di gruppi di criminalità organizzata: il fatto che nel dibattito corrente si tende ad associare il fenomeno del caporalato esclusivamente al mondo agricolo oscura le dinamiche di sfruttamento che riguardano invece altri mondi, a partire da quello dei servizi. Tuttavia, i due casi studiati e presentati in questo volume mostrano che il meccanismo a cui siamo di fronte non è necessariamente quello di un uso strumentale della cooperazione da parte di gruppi di criminalità organizzata o di altri soggetti strategici che sfruttano sapientemente le crepe nel nuovo sistema. Assistiamo piuttosto a un complesso intreccio di dinamiche che – tra la gestione emergenziale di alcuni settori e la difficoltà di restare in equilibrio tra stato e mercato – inducono alla gestione illecita anche soggetti la cui provenienza criminale è di difficile definizione.

La comprensione di queste dinamiche non può che avvenire delineando gli assetti di governance che presidiano le relazioni tra potere politico, amministrazioni pubbliche e cooperative sociali nella gestione dei servizi e individuando i livelli di opacità e complicità che si vengono a creare.


[1] Per una bibliografia minima sul tema, cfr.: https://www.forumterzosettore.it/documenti/bibliografia/

[2] Per un approfondimento sulle differenze anche strutturali all’interno della cooperazione sociale dovute al diverso orientamento politico e valoriale rimandiamo ancora a Borzaga e Ianes (2006); cfr. anche Carls e Cominu (2014).

[3] Un importante dibattito su questo tema è stato rilanciato recentemente dal documento “Per un’economia più giusta. La cooperazione come argine delle disuguaglianze e abilitatore di giustizia sociale”, sostenuto dal Forum Disuguaglianze Diversità e dalla Fondazione Unipolis. Cfr. https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/la-cooperazione-nella-lotta-contro-le-disuguaglianze-dibattito-online-su-vita/

[4] Come abbiamo avuto modo di approfondire nel capitolo II, un ruolo decisivo nell’omologazione delle culture organizzative del non profit è quello giocato dal mondo bancario.

[5] È l’approccio adottato anche dalle diverse osservazioni etnografiche delle realtà – cooperative, associazioni, enti pubblici – che gestiscono l’accoglienza dei flussi migratori in arrivo in Italia. Operatori dell’accoglienza e funzionari pubblici divengono così veri e propri “nativi” a cui volgere l’attenzione per comprendere “la vita sociale delle istituzioni e dei progetti locali, [le] esperienze dei servizi e [la] fitta rete degli attori che compongono il variegato sistema dell’accoglienza” (Tarabusi 2014, p. 46). Si vedano anche Sacchi e Viazzo (2003), Riccio (2008), Sorgoni (2011 e 2021).

[6] L’impostazione data dal Codice degli appalti del 2016 è stata parzialmente superata grazie al nuovo Codice del 2023 e soprattutto alla sentenza della Corte Costituzionale – la 131/2020 – che ha messo in discussione la primazia della “concorrenza nel mercato” sui principi di sussidiarietà e solidarietà, richiedendo l’applicazione delle regole del Codice del Terzo settore e quindi reintroducendo la possibilità della concessione dei servizi in convenzione. Lo stesso Codice, introducendo i dispositivi della co-progettazione e della co-programmazione dei servizi (previsti dall’articolo 55), sottolinea il ruolo del Terzo settore come interlocutore e non solo come conveniente prestatore di servizi.

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